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al testo di Alessandro Martino
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Prima ancora dello sciame dietro l'anziana col piatto i gatti godevano dell'attenzione dell'uomo; avevano statue, rispetto e posti di privilegio intorno ad esso. Perfino nel tardo ottocento, in città popolate unicamente da briganti c'erano ordinanze comunali affinché non fossero lasciati digiuni.
Così ti guardi attorno, cerchi, infine ti siedi.
Da una panchina del centro il passare dei ragazzi abbandonati alla loro momentanea inutilità, che ridono sguaiati a tutta la loro inesperienza, che non cercano e stanno tra loro rifrangendosi gli uni con gli altri il silenzio che gli hanno portato in dono ti ficca nella gola il dolce fumo di un'altra sigaretta e il grattare del miserabile fallimento di tutta una società.
La tristezza non è altro che un ricovero per pazzi.
Non si può essere tristi finché resta ancora qualcosa da fare, ti ripeti, ma continui a non vedere gatti, solo acconciature con bicchiere a bere per se stesse, cani trascinati di vetrina in vetrina sovrappeso come la promessa tutta illuminata che poter spendere è democrazia, che saper possedere è bello, che l'essere ignoranti è sano; che l'essere egoisti è naturale.
Dunque resti lì ancora un poco, e cerchi.
Tra l'odore della merda mista a oli per pelle e fritto di pesce di un borgo di mare sovraffollato da risa, schiocchi di piatti, vetrine illuminate come puttane sempre aperte e grida di ragazzi e di ciò gli accade intorno di cui non vogliono sapere non vedi neanche un gatto, nemmeno uno che si avvicini che si lavi le zampe o dorma, indisturbato dal rumore.
Ah l'America, che grande stronzata.
Maledetti, portarci la loro non storia, portarci la loro fottuta democrazia, ipocrita e assassina, di culture, di innocenze, di verità e di sogni. Perché se c'era un sogno, era quello di convivere tutti pacificamente tra noi, imparando dagli animali, primi tra tutti i gatti. I gatti, loro si che sono spariti come se avessero trovato l'America. Ahimé, quella vera.
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